Post-industriale: archeologia, museologia e sperimentazione

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Nuove possibili esperienze di valorizzazione

Lavorando da tempo alla rigenerazione di spazi post industriali, sono molte le riflessioni che sono emerse su vari aspetti. Buona parte di queste sono confluite nella realizzazione del padiglione museale itinerante Nomadic Landscape quale strategia sovra-territoriale di approccio; una modalità d’interfaccia con gli stakeholder e le comunità; la creazione di un “luogo” di scambio. 
In questo testo sono stati raccolti alcuni spunti teorici che hanno determinato la presente progettualità.

L’archeologia industriale studia i beni materiali (architetture e ciò che resta degli impianti di produzione) dei processi industriali. Lo fa per collocarli nel panorama dei valori socio-culturali ed economici di una comunità (territoriale e/o scientifica), attraverso pratiche multidisciplinari.
Spesso questi valori sono nuovi: a volte sono da creare, altre da intercettare o reinterpretare, sulla base delle diverse componenti di questa eredità, ad es. architetture, macchinari, opere idrauliche, ecc.
L’archeologia industriale dovrebbe così accompagnare alla scelta di ciò che, di questa eredità, è da conservare e cosa non lo è.

Ma la conservazione di un bene di archeologia industriale, quanto quella di un sito di archeologia “classica”, è determinata da una molteplicità di fattori ( come ad esempio la necessità di reinvestire le cubature e gli spazi da parte della proprietà privata; opere di bonifica e messa in sicurezza da parte dell’ente pubblico; o al contrario la volontà di una fondazione d’impresa di mantenere viva la storia aziendale o l’intervento della soprintendenza a tutela del valore storico architettonico, o paesaggistico, ecc,) e per quanto sia auspicabile, non è affatto detto che intervenga lo studio e il consiglio di un esperto a sancirne il futuro.

Al contrario dell’archeologia classica però, il bene di archeologia industriale, nella maggior parte dei casi non è da “scoprire”, è semmai da rivalutare: è una evidenza che tutti hanno di fronte agli occhi che necessariamente mostrerà, come le varie componenti della società, (il mercato, la politica, i cittadini, il terzo settore, ecc.) lo intendono, ricordano e proiettano nella propria visione del futuro.
Vista l’importanza che spesso questi siti produttivi hanno rivestito per la comunità, la loro trasformazione rimodella non solo il paesaggio, ma gli stili di vita e di socializzazione, nonché le nuove modalità e occasioni di aggregazione degli stakeholder.
Ecco perché quando un bene di archeologia industriale diventa qualcosa, è sempre, in un modo o in un altro, un prodotto culturale di un processo in cui si incontrano tutte le sfaccettature della società contemporanea.

Da un certo punto di vista si può perciò interpretare l’Industrial Heritage come museo, anche quando non è stato svolto un consapevole lavoro di “conservazione”, perché esso diviene, suo malgrado, “zona di contatto” fra le diverse culture che vi si confrontano* (J. Clifford 1997): un museo, dice J. Clifford, “descrive la gamma di relazioni e attività che stanno dietro alle operazioni di valutazione, collezione ed esposizione (ove ci sia) del patrimonio culturale”.
Per un reperto di archeologia industriale il suo stato di conservazione, l’esistenza o meno di materiale iconografico, la conoscenza del processo che vi si realizzava eccetera, essendo una memoria o dimenticanza, che si gioca nello scarto di pochissime generazione, è una evidenza significativa che descrive un complesso di relazioni, avvenute o mancate, e di processi di valutazione.

Sul ruolo etico ed educante del museo nella comunità (Hooper-Greenhil 1992; Bennet 1998) si è molto discusso in museologia e antropologia. Ma questa parte di patrimonio “ex industriale”, museo di se stesso, gioca un ruolo critico in più, perché è generalmente un problema irrisolto, che pone a tutti i soggetti coinvolti l’onere di una scelta, tra un approccio per “stratificazioni” (con quanto già sussiste) o per “sostituzioni”: abbattere o conservare?
Per questo anche là dove il patrimonio materiale è andato perso, e un vero e proprio reperto di archeologia industriale non esiste più, ci interessa comunque indagarne i resti immateriali e la nuova dimensione materiale.
Facendo un esempio un po’ paradossale ( ma non troppo) anche un parcheggio, creato là dove in un passato recente vi era uno stabilimento storico, svolge un ruolo culturale importante nel messaggio che manda alla società; dice molto, soprattutto dice qualcosa che non è così facilmente ne prevedibile, ne a nostro avviso sintetizzabile.

Possiamo ricostruire la storia del perché un’azienda ha dismesso le proprie attività e del come e perché l’edificio sia stato edificato e poi abbattuto, possiamo ricostruire prodotti e processi e collocarli storicamente e socialmente. Ma come oggi quel paesaggio influisca sulla cultura contemporanea, come venga recepito quell’abbattimento, ad esempio da parte di un immigrato che non sa cosa fosse quel luogo, quanto invece per il nipote di un ex operaio, è impossibile da sintetizzare “verbalmente” o in dati, e forse anche da un punto di vista narrativo.

Perchè l’arte contemporanea

Affrontare questa parte di patrimonio attraverso l’arte contemporanea, diviene quasi un esordio naturale: per la transmedialità intrinseca al patrimonio stesso (l’eterogeneità degli aspetti e varietà di prodotti culturali che racchiude in sé, dall’architettura, all’oggettivistica, grafica ed estetica della comunicazione del tempo, strumenti e mezzi di comunicazione, ecc.); la fisiologica mancanza di profondità storica che non permette uno storytelling “a posteriori”; la necessità per questo patrimonio di una nuova “identità rappresentativa” e di senso.

A tal proposito ci è sembrato importante introdurre già nel titolo il concetto di Paesaggio piuttosto che di Patrimonio, per richiamare la convenzione del paesaggio che l’Unione Europea ha siglato nel 2000; in essa non solo si trovano una serie di indicazioni sulla conservazione del patrimonio paesaggistico ma la chiarificazione di quanto esso sia legato all’esperienza che viene fatta da parte di chi ne fruisce. L’arte nell’esperienza paesaggistica ha storicamente giocato un ruolo importantissimo, definendola e storicizzandola.

Il concetto di post-industriale

C’è una folta letteratura sociologica che designa l’affermarsi del termine post-industriale, dandogli profondità teorica e storica. Ogni studioso ne ha indagato aspetti differenti, a tal punto differenti da giungere con D. Bell, ad un’analisi quantitativa-qualitativa della viralità del termine, dimostrando come, la cosiddetta “Società dell’informazione” determinata dal “Post-industriale”, riesca ripetendo il termine “in tutte le salse” a svuotarlo di ogni concetto. (D. Bell nell’introduzione riscritta per la ristampa, dopo 25 anni dalla prima uscita, di “The Coming of Post-Industrial Society”). Fenomeno che mi ricorda l’azione che iconograficamente fece Warhol o la “contagiosità del situazionismo” che per un periodo vide moltiplicarsi, fuori da ogni controllo, il numero dei ” situazionisti” mentre l’Internazionale si asserragliava in una strenua selezione iperpurista fatta di espulsioni e autodefinizioni.
Qui sotto una breve panoramica ripercorre i principali autori che hanno affrontato il tema.
Quello che ci sembra però comune a tutti è un fatto abbastanza evidente: in Europa si è passati da una economia fatta di processi di trasformazione della materia, finalizzati alla produzione di oggetti, a una società sempre più impegnata nella produzione di servizi e informazioni. Questo ha avuto non solo ripercussioni enormi sul piano economico e sociale ma anche importantissime conseguenze da un punto di vista urbanistico, segnando profondamente abitati e intere aree che hanno dovuto affrontare, o lo devono ancora fare, una riconversione di stabili e a volte interi quartieri.

…e a questo punto possiamo aggiungere che diventa tra l’arduo e l’impossibile ….trovare un luogo che oggi possa davvero dirsi “esonerato” dal post-industriale!

Un breve excursus tra i teorici del post-industriale:

Daniel Bell (1973), sociologo statunitense, vede il passaggio da una società iper industriale a una società post industriale fondamentalmente denotato dalle conseguenze del cambio di produzione, da oggetti a servizi, legata a filo doppio con lo sviluppo tecnologico, teorico e scientifico. Il prodotto della società post-industriale è dunque la conoscenza teorica e in ultima analisi l’informazione, quale elemento propulsore dello sviluppo.
La pervasività delle tecnologie nella vita sociale dell’uomo fa sì che la Società dell’Informazione e quella post-industriale coesistano, ridisegnando vita sociale e la stessa identità degli individui, la cultura ed l’educazione. Esse trasformano il rapporto con noi stessi, con gli altri e con la realtà e l’ambiente che ci circonda. “Riferendosi al concetto di “tecnologia intellettuale”, Bell spiega come la tecnologia rappresenti il braccio strumentale dell’azione intellettiva”. Interessante qui sarebbe un confronto con G Debord e la sua “Società dello spettacolo”.
L’analisi di Daniel Bell scaturisce da aspetti per lo più di tipo economico mentre quella del sociologo francese Alain Touraine (1970) parte da presupposti che riguardano l’assetto politico-sociale dell’epoca: l’Ottocento per A. T. aveva una struttura economica, ideologica e sociale più articolata rispetto al ‘900 segnato da una società “post-industriale” e “tecnocratica” definita “programmata”, in cui l’economia, il denaro e il potere sono posti al centro della vita e del benessere sociale. La Società Programmata è caratterizzata dall’ascesa e dall’aumento di potere di alcuni attori (tecnocrati) non legati alla sfera economico-produttiva che hanno la capacità di programmare lo sviluppo e il cambiamento sistemico della società.
Paul A. David e Dominique Foray (2003), definiscono il Novecento “soft discontinuity”, per la rivoluzione negli strumenti di creazione e diffusione della conoscenza, mentre Il sociologo Manuel Castells (2002), ha riconosciuto nel cosiddetto “informazionalismo” l’aspetto saliente della nuova struttura socio-economica, cioè nuove strutture di potere economico. In particolare, quest’ultimo sottolinea come ciò che contraddistingue lo sviluppo dell’economia informazionale è proprio il suo emergere in contesti culturali e nazionali molto diversi, che non può essere spiegata in base a presupposti culturali, quanto, in funzione di nuove logiche organizzative e nuovi paradigmi tecnologici.

Narrazione Transmediale

Spesso, il termine transmedia viene confuso con il concetto di cross-media. Il crossmediale si riferisce alla complessità trasmissiva di un contenuto, ad esempio un unico testo che viene comunicato attraverso canali differenti.
La narrazione transmediale invece crea un universo unico, raccontato attraverso vari media (televisione, Internet, radio, editoria, ecc) che forniscono, ciascuno, una prospettiva aggiuntiva al prodotto. La narrazione transmediale racconta una singola storia utilizzando piattaforme e format (digitali e non), che ingaggiano il pubblico permeandone la quotidianità, proponendo contenuti unici, sincronizzati tra loro, per comunicare il prodotto che si crea nell’insieme di queste narrazioni.
Facciamo un esempio. Un esempio che consapevolmente trasla in un orizzonte concettuale diverso dal solito l’idea di transmedialità.
Una conceria realizza dei pellami che sono stati oggetti di sfilate di moda entrando in video diffusi su vari canali come tv, piattaforme web; idem per le fotografie dei servizi di moda che si troveranno in riviste cartacee, portfolio fotografici delle modelle, mostre fotografiche dei fotografi coinvolti, account dei social network degli spettatori, semplici curiosi o blogger e influencer, attraverso post testuali e multimediali. I pellami avranno però partecipato (prima di essere stati scelti e divenire capi e calzature), a fiere di settore, saranno entrati a far parte di cataloghi e campionari e, anche in queste occasioni, avranno dato adito ad altri prodotti multimediali. Prima ancora gli allevamenti degli animali avranno fatto parte di un certo paesaggio, più o meno rurale, e la produzione industriale della conceria stessa avrà sicuramente inciso sul paesaggio urbano del luogo nel quale si è installata; entrambi i paesaggi saranno entrati in racconti vari: dal tema del bambino a scuola, alla fotografia del writer che ha “taggato” la facciata dell’edificio oggi in disuso. Tutto questo sarà avvenuto lungo un asso di tempo che ha attraversato periodi storici differenti. Ogni periodo avrà affrontando con strumenti ed esigenze diverse la comunicazione e la conservazione della memoria dei prodotti e delle lavorazioni, elaborando prodotti audio-visivi, testuali ecc. molto diversi.
Ora si immagini che un bambino nasca e viva 50 anni di storia di quella conceria, prima come abitante e figlio di allevatori, poi come operaio e in fine come padre di una signorina molto interessata alle calzature di lusso, prodotte con i pellami di quella conceria, e nonno di un giovane stilista di calzature. Ecco come può essere contestualizzata la transmedialità, realizzata nella diversità di mezzi di comunicazione e contenuti rappresentativi, tra soggetti ed epoche, calandola in un territorio mentale più quotidiano, come ad esempio il Nord Italia.
Una contestualizzazione che il progetto vuole agire come parte del suo aspetto di innovazione e sperimentazione. Un incontro tra culture e situazioni intese, normalmente, come qualcosa di distante e “diverso”.
Una prima riflessione sul concetto di transmedialità è stata attribuita a Dick Higgins (Cambridge, 15 marzo 1938 – Québec, 25 ottobre 1998), poeta e compositore inglese naturalizzato statunitense. Higgins si occupò dei fenomeni di interrelazione tra le arti, come artista ed editore, fin dal 1957, divenendo uno dei principali esponenti, insieme a John Cage, del movimento Fluxus
Affronta il concetto, per la prima volta dell’articolo “Statement of Intermedia”, pubblicato nel 1965 sulla propria rivista “Something Else Newsletter”. Higgins utilizza il concetto di “intermedialità” per indicare la necessità per gli artisti di aprire il proprio pensiero creativo all’utilizzo di diversi supporti mediali, evitando di racchiudere il significato delle proprie opere all’interno di un’unica disciplina.
Nel 1991 Marsha Kinder, docente all’University of Southern California, ha parlato invece di “superstrutture commerciali transmediali” nel suo libro “Playing with Power in Movies, Television and Videogames” per evocare il potere della narrazione transmediale nel messaggio pubblicitario.
Mentre il concetto di transmedialità per come viene inteso oggi è stato utilizzato per la prima volta da Henry Jenkins nel suo articolo Transmedia Storytelling, pubblicato nel gennaio 2003 su Tecnology Review affrontando successivamente il concetto più ampio di “Convergence Culture” (2006).

Il progetto NL

Il progetto Nomadic Landscape, pur nella consapevolezza dei curatori delle questioni che sottostanno al concetto più ampio di post-industriale, applica tale formula a quel bagaglio di beni materiali, immateriali e di pratiche, che oggi  rappresentando la fase di vita post industriale dei luoghi.
Esso mette al centro dell’azione le pratiche di fruizione (diretta o indiretta) e le progettualità di ri-funzionalizzazione.

Il museo nel suo toccare varie tappe disegnerà un percorso più o meno pre-definito, a volte nato più dall’opportunità della presenza di operatori interessati all’azione proposta che non per le peculiarità del luogo.

L’obiettivo è
1. permettere ad una serie di operatori culturali e artistici di lavorare insieme su questa parte di patrimonio creando un corpus di lavori e consolidando ( e possibilmente ampliando) un network di relazioni fra i soggetti cooperanti per avviare e sostenere nel tempo la ricerca in tal senso,
2. proporre un modus operandi che renda esplicito per gli enti in che modo si può approcciare questa parte di patrimonio e quali risultati può dare in termini di fruibilità e attrattività dei beni e di internazionalizzazione e condivisione della problematica.
Il progetto farà emergere quanto e come questa parte di patrimonio possa costituire un’occasione di confronto internazionale, in quanto nodo identitario europeo, oggi vissuto come problematico, ma fucina e potenziale collettore delle pratiche più creative e “nuove” che il continente esprime in termini di produzione culturale.

Esso produrrà installazioni, prodotti editoriali e oggettuali e pratiche esperienziali (visite guidate, laboratori, workshop, percorsi multimediali ecc) che verranno fruiti “on line” e “on site”. On line attraverso i siti internet dei partner, dei media partner e degli stakeholder.
On site negli spazi espositivi dei partner e di alcuni stakeholder.

Di Francesca Conchieri

* quella della proprietà (pubblica o privata che sia) passata e presente, con quella della cittadinanza (gli ex lavoratori o persone che non hanno mai visto in funzione l’impianto, ecc)

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Riferimenti bibliografici:

“Industrial Heritage Management (IHM). Inquadramento di un campo di studio emergente attraverso la revisione della letteratura” in Il capitale culturale Vol. XI del 2015 pp. 313/336 di Angelo Presena e Maria Concetta Perfetto

“Rigenerare spazi dismessi” Nuove prospettive per la comunità Q37; collana I quaderni della fondazione; ed. Fordazione CRC, luglio 2019

“Laboratori urbani. Organizzare la rigenerazione urbana attraverso la cultura e l’innovazione sociale” A cura di Fabrizio Montanari e Lorenzo Mizzau

“Elementi per una teoria critica della società nell’età dell’informazione” di Flavio De Giovanni. Dottorato di ricerca in teoria e ricerca sociale (XVII ciclo) Dipartimento di sociologia e comunicazione, Università di Roma “La Sapienza”

“Infrastrutture turistiche e paesaggio Le stazioni di partenza degli impianti di risalita in Trentino: criticità paesaggistiche e prospettive di riqualificazione.” n° 04 Quaderni di lavoro. Aprile 2017 A cura di osservatorio del paesaggio trentino.

DISMISSIONI, USI TEMPORANEI, EVENTI E RIGENERAZIONE URBANA. NOTE INTORNO AL CASO MILANESE” di ANTONELLA BRUZZESE Pag. 23/30 in “Iconemi. Alla scoperta dei paesaggi bergamaschi. Eventi: la città nella dimensione del transitorio. Effimero e permanenze nei paesaggi contemporanei” Bergamo University press; Sestante edizioni; collana Quadreni A cura di Università degli Studi di Bergamo – Centro Studi sul Territorio “Lelio Pagani” “

AHRC/JPICH Workshop on Re-use and continued use of historic buildings, urban centres and landscapes November 26th 2018 College Court Conference Centre, Leicester, United Kingdom

“Riempire di creatività. La creatività temporanea negli spazi in abbandono” di Flavia De Girolamo. Pubblicato su”Territorio della ricerca su insediamenti e ambiente” Rivista Internazionale semestrale di cultura urbanistica N° 14 del 2015. Università degli Studi Federico II di Napoli Centro Interdipartimentale di Ricerca L.U.P.T. (Laboratorio di Urbanistica e Pianificazione Territoriale) “R. D’Ambrosio”.

Tesi “Pratiche museali per l’accessibilità e l’inclusione culturale. Incrementare la partecipazione del pubblico con esigenze specifiche e disabilità” di Alice Fasano anno 2017/2018 Università Cà Foscari di Venezia relatore Prof. Michele Tamma.

“La sociologia della crisi” di Alain Touraine di Andrea Villa

Sitografia:

Sul transmediale
https://isabelkrueger.atavist.com/untitled-project-zp9yf